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La prevalenza del tamarro

La prevalenza del tamarro

Quando è stato “sdoganato” ufficialmente il tamarro, detto anche coatto o truzzo?Alcuni fanno risalire questo infausto momento al  del film di Carlo Verdone Gallo Cedrone (1998), mentre altri vanno ancora più all’indietro, a quando Dolce&Gabbana mandarono in passerella uomini in canottiera e ciabatte. Una provocazione che fu ovviamente scambiata, da alcuni poveri di spirito, per il lancio di una nuova (?) moda. Fatto sta che lo – per così dire – “stile” di questa tipologia metropolitana, fino a quel
momento confinata nelle suburre, è velocemente dilagato e ha conquistato vette un tempo impensabili. Beninteso, vette di cattivo gusto.

L’orgoglio del coatto

Riconoscere un tamarro a distanza, al giorno d’oggi è relativamente più facile rispetto ad un tempo, perché sono cambiati i parametri. Tirato fuori dal ghetto nel quale era rimasto circoscritto per decenni e diventato “terra di conquista” per stilisti a corto di idee, questo soggetto ha sviluppato un certo orgoglio senza tuttavia abdicare al connaturato cattivo gusto e alla tradizionale pacchianeria.

Con l’aiuto di alcuni stilisti compiacenti

Tengo a specificare che, in questa categoria, non rientrano soltanto i ragazzotti delle periferie urbane nazionali, ma vi sono compresi a pieno titolo anche molti facoltosi
personaggi dell’Est Europa, del Medio Oriente o degli slums americani che, appena “fatti i soldi”, venendo da generazioni di fame, ci hanno – come dire… – “tenuto” a
comunicare visivamente la buona novella all’universo mondo. E molti stilisti, case di moda, industriali del prèt-à-portér, invece di “educare” in qualche modo questi nouveau riches al buon gusto e alla discrezione, si sono invece deguati al nuovo infausto trend, creando abiti – o variazioni delle collezioni ufficiali – che sembrano concepiti a loro uso e consumo. Questo ci permette oggi di identificare senza alcuna ombra di dubbio come “tamarro” quel gentiluomo (o gentildonna) con addosso – al di là del consueto guazzabuglio di colori assemblati alla carlona – capi, come si suol dire, “firmati”, ma firmati per
ipovedenti.

Loghi famosi… che esagerano

Ecco quindi che – per fare un esempio – il discreto coccodrillino, solitamente collocato all’altezza del pettorale sinistro, diventa una sorta di dinosauro che occupa tutta la superficie anteriore della maglietta e a volte ne straborda. Lo stesso dicasi per l’aquilotto, logo di un noto stilista, che passa dalle dimensioni di un colibrì a quelle di
un condor. Tutto viene pacchianamente sovradimensionato per piacere a questa sorta di gentiluomini e gentildonne pieni di denaro ma carenti di buon gusto e cultura: le griffes che indossano così come i loro mezzi di trasporto, le loro case, gli orologi che portano al polso, le “catenine” che sfoggiano al collo e che sarebbero sufficienti ad
ancorare un cacciatorpediniere (esempi eclatanti gli oligarchi dell’Est, i rappers americani e, da noi, lo stile trap) affinché chi li incontra per strada non abbia dubbi che siano diventati benestanti. Che abbiano in qualche modo ottenuto quel riscatto sociale a cui tanto anelavano.

Totalmente griffati, dalla testa ai piedi

In altri casi, il logo – sempre leggermente più grande del normale – viene ripetuto ossessivamente lungo tutta la superficie dell’abito, come nel caso di due noti pellettieri, uno francese e uno fiorentino, cosicché l’impressione che se ne ha è che il soggetto di turno indossi una valigia. Un’ostentazione che funziona tuttavia come un boomerang, identificando immediatamente il personaggio e collocandolo automaticamente e suo malgrado nella categoria dei tamarri.

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