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Giacomo Poretti e il terapeutico potere del ridere (intervista)

Giacomo Poretti e il terapeutico potere del ridere (intervista)

Giacomo Poretti e il terapeutico potere del ridere (intervista)

Giacomo Poretti e il terapeutico potere del ridere (intervista). Oggi è un comico famoso, in trio con Aldo e Giovanni, come pure uno scrittore di successo. Ma non ha dimenticato il suo passato da metalmeccanico e, soprattutto, da infermiere. Che ora è divenuto ispirazione per il suo ultimo romanzo. Giacomino Poretti, dopo aver fatto il metalmeccanico e poi per 11 anni l’infermiere, decise di dedicarsi alla comicità, che, insieme ai due amici, gli ha dato enorme successo a teatro, con i film e in televisione. Ha da poco pubblicato il suo terzo libro, Turno di notte, con protagonista l’infermiere Sandrino Saetta.

Da quali esperienze derivano le tematiche di Aldo, Giovanni e Giacomo?
Domanda alla quale è molto arduo rispondere. Nel nostro caso, il desiderio di raccontare comicamente la realtà e delle vicende non può che servirsi della fantasia. Di sicuro non c’è dietro un ragionamento razionale. Per il comico, una parte di ciò che racconta è immerso in una specie di mistero.

Nei vostri personaggi portate un po’ del vostro io reale?
Ognuno di noi tre si sente a proprio agio quando si trova a interpretare delle situazioni che sono un po’ più vicine a lui. Anche se comunque il discorso rischia di farsi un po’ scivoloso, perché il comico non è mai completamente autobiografico. Pesca dentro qualcosa di sé ma la fantasia aiuta a creare il resto.

Come è cambiata la comicità da quando avete cominciato?
Sembra che la realtà odierna sia sempre più individualistica. Anche i mezzi con cui si manifesta, penso soprattutto a Internet, rendono difficile il dialogo. Trent’anni, quarant’anni fa il palcoscenico era il teatro, dove nasceva tutto; poi si passava in televisione. Oggi basta lo schermo di un telefonino e da lì possono nascere cose viste in tutto il mondo.

Che differenza c’è la  persona di Giacomo comico famoso e quella di Poretti infermiere?
Altra domanda difficile! Adesso, ciò che si vede pubblicamente è certo qualcosa che mi appartiene. Credo però di non essere molto differente da quando facevo il metalmeccanico o quando facevo l’infermiere in ospedale. Forse adesso il pubblico – che mi vuole tantissimo bene – vede soprattutto l’aspetto bello, positivo, quello che fa scattare la risata, ma poi tutti sanno che esiste una vita privata al di là dell’esibizione. Un privato uguale per tutti, con sofferenze, tristezze, difficoltà, imbarazzi e vergogne….

Cosa non riusciva a sopportare della professione di infermiere?
Non me ne sono andato dall’ospedale perché non lo sopportavo. Io ho il grosso rammarico di non aver potuto studiare, dopo la terza media son dovuto andare a lavorare in fabbrica. Entrando casualmente a lavorare in ospedale mi sarebbe piaciuto tantissimo fare il medico ma, non avendo studiato, non ho potuto. Me ne sono andato solo perché dentro di me avevo un’altra urgenza che mi spingeva: la voglia del teatro e dell’arte.

Il nuovo libro è diviso in cinque parti: Calor, Tumor, Rubor, Dolor e Functio Lesa, che corrispondono ai cinque segni di un’infiammazione. Perché?
Quando nel 1977 feci la scuola per infermieri, erano appena state introdotte delle modalità di insegnamento anglosassoni. Si parlava di nursering e l’insegnamento cardine, dal punto di vista medico, era la descrizione degli effetti dell’infiammazione, perché, una volta compreso quel meccanismo, si poteva comprendere l’andamento di quasi tutte le malattie.

Quanto pensa che il potere terapeutico del

 possa realmente aiutare un malato?
Può sicuramente funzionare in pediatria. Con Aldo e Giovanni ci siamo andati diverse volte. In altri reparti è più difficile, specie in oncologia, dove ho lavorato per molti anni. Credo che in quel caso funzioni di più la vicinanza vera, la compassione. Una persona, in una condizione così, ha altri pensieri.

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