Totò, il bambino di Nuovo Cinema Paradiso si racconta
Il bambino di Nuovo Cinema Paradiso si racconta. A soli 8 anni vedersi catapultato nella totale popolarità internazionale con un film non dev’essere cosa da niente. E’ quello che è successo a Totò Cascio, partecipando a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Successivamente scopre di avere un problema alla retina, iniziando un cammino doloroso verso la quasi totale perdita della vista. Oggi l’attore si racconta, con tanta voglia di ricominciare.
Totò Cascio, il bambino di Nuovo Cinema Paradiso si racconta a 42 anni
Per anni Cascio è stato ossessionato da una battuta pronunciata da Alfredo (interpretato da un grandissimo Philippe Noiret) in Nuovo Cinema Paradiso: «Se dovessi perdere la vista, tu sarai i miei occhi». E in un certo senso lui, Totò, rappresentava davvero gli occhi di quel burbero proiezionista, al quale il bambino si affezionava. E attraverso il quale scopriva la magia del cinematografo. Quel bambino che frequentava il cinema e cercava di recuperare gli spezzoni di film tagliuzzati dalla censura, quello che maneggiava la pellicola e che è diventato lo sguardo innocente di tutta l’Italia. Un bambino prodigio, perché dopo quel film benedetto dall’Oscar, ha recitato con registi di grande statura come Tessari, Avati, Ciprì e Maresco. Poi il totale silenzio, difeso con caparbietà dalla curiosità dei giornalisti. Oggi Totò ha 42 anni e, dopo decenni, ha deciso di raccontare la sua verità, Una verità che porta un nome medico: retinite pigmentosa. Una patologia che l’ha reso quasi cieco.
L’intervista
Cosa riesce a vedere attualmente?
Le luci. Percepisco se in una stanza ci sono le finestre aperteo meno… ma oggi sono abbastanza autonomo. Dopo anni ho imparato che il vittimismo serve a poco. Nei prossimi giorni, per esempio, dovrò andare in Toscana per presentare il mio libro La gloria e la prova Ci andrò da solo. Certo, mi verranno a prendere… ma io oggi vivo in quasi autonomia tra Bologna e la Sicilia e non escludo, un domani, di trasferirmi.
La diagnosi della sua malattia le fu comunicata a 11 anni…
Sì… e dopo il successo di Nuovo Cinema Paradiso arrivavano un sacco di offerte. Io ero un bambino, non mi rendevo conto di tutto quello che stava succedendo. La premiazione agli Oscar, l’incontro con Sylvester Stallone, le battute con Celentano, i palleggi con Baggio e Vialli, i viaggi in Usa e in Giappone perché mi volevano negli spot pubblicitari. Ho conosciuto Gregory Peck e Glenn Ford, ho lavorato con Ennio Morricone, la famiglia Agnelli mi volle tra i testimonial del lancio della Fiat Cinquecento, nel 1991.
Dopo cosa successe?
Qualcuno intorno a me cominciò ad accorgersi che qualcosa nei miei occhi non funzionava. Fu Blasco Giurato, direttore della fotografia di Tornatore, a suggerire a mio padre di approfondire la cosa. La diagnosi, formulata in un centro di cura in Svizzera, non lasciava scampo: retinite pigmentosa, una grave malattia agli occhi che porta alla perdita progressiva della vista.
I problemi non si risolvono nascondendosi
Lei in che modo reagì?
Ignorando il problema, nascondendomi, cosa che ho fatto fino a quando non mi sono deciso a chiedere aiuto e a curarmi. Col senno di poi… se avessi chiesto subito aiuto non avrei vissuto fino a quasi 40 anni nell’isolamento più totale.
Qual è la cosa che l’ha fatta più soffrire?
Una volta una troupe televisiva, per fare uno scoop, venne a filmarmi senza avvisare nel supermercato di mio padre, dove lavoravo. Non sapevano della mia malattia ma volevano puntare sul tema, trito, del “che fine ha fatto”. Fu un grandissimo dolore.
Nelle sue parole – e anche nel suo libro – si avverte una grande diffidenza verso tutto. Da dove nasce questo sentimento?
Se diventi molto famoso a soli otto anni in un paesino della Sicilia devi mettere in conto l’invidia. La cattiveria sotto forma di battute, piccole malignità anche per la mia famiglia.
In che modo è riuscito ad accettare la malattia?
Intraprendendo un percorso di psicoterapia, lavorando a contatto con altre persone che condividono la mia stessa forma di invalidità. Devo moltissimo all’istituto “Francesco Cavazza” di Bologna, dove si lavora per l’integrazione dei portatori di disabilità nel tessuto sociale.
Cosa direbbe a chi soffre del suo stesso problema?
Non nascondetevi, anzi imparate ad accettarvi. «Senza accettarsi, ci si porta dentro l’avversario più feroce. Me lo disse anche Andrea Bocelli: “Totò, non è un disonore”. Sono state parole illuminanti.
Adesso in cosa spera?
Ora sono pronto per ricominciare. Vorrei portare il libro che ho scritto per Baldini+Castoldi in teatro. Andando in giro a parlare a chi soffre del mio stesso disturbo. Vorrei tornare a recitare.