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Shel Shapiro: un eterno ragazzo che non smette di sognare

Shel Shapiro: un eterno ragazzo che non smette di sognare

Da icona del beat italiano anni ’60 a produttore musicale di prestigio, con una passione per il grande e piccolo schermo… Shel Shapiro, nella musica come nella vita, ha ancora molte cose da dire e da fare. La sua musica col tempo ha assunto la connotazione di vera e propria colonna sonora di quella generazione e i suoi concerti, anche oggi, riescono a catalizzare l’attenzione di un pubblico trasversale, dai “giovani di allora” alle nuove generazioni. Mia Martini, Gianni Morandi, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Mina, Raffaella Carrá, Riccardo Cocciante, Paco De Lucia, Luca Barbarossa, Quincy Jones… sono soli alcuni dei nomi altisonanti coi quali Shapiro ha intessuto collaborazioni artistiche. Il suo ultimo singolo “La leggenda dell’amore eterno” ci trasporta nell’universo più disincantato del rock romantico, anticipando un album di inediti in uscita il prossimo marzo. Prodotta insieme a Filadelfo Castro, la canzone è una ballad che riesce ad unire l’irrazionalità di un uomo adulto allo sguardo sognatore di un bambino. La copertina del singolo, firmata dal famoso fotografo musicale Guido Harari, ritrae Shel affiancato da un compagno inusuale, un potente camion Man Tgx 18.510 total black, che riporta immediatamente il nostro immaginario al mondo rock, costantemente on the road. Nel videoclip del brano, diretto da Alex Ratto, una partner d’eccezione: Mara Venier! Nella sontuosa cornice di Vigna dei Cardinali a Roma, immersi in un’atmosfera ottocentesca, i loro gesti e gli sguardi ci trasmettono tutte le sfumature del complesso sentimento dell’amore, quello vero, che dovrebbe durare tutta la vita ma che, come tutte le favole, non si avvera quasi mai.

Dei tanti aggettivi che possono essere utilizzati per parlare di te, si può dire che sei un bell’esempio di “cittadino del mondo”: ti ci ritrovi in questa definizione?
Ritengo proprio di sì, da buon  britannico, nato da famiglia ebrea con origini russe e poi naturalizzato italiano… credo di potermi fregiare a pieno titolo di questo appellativo! Essendo figlio di ebrei, la mia è stata una specie di diaspora. Non ho mai avvertito però la sensazione di essere un migrante.
Che ricordi hai della tua famiglia?
Penso spesso a mia mamma, Florence, tutti la chiamavamo Honey. Una donna e una madre fantastica, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, sempre molto delicato. Fu lei che, ad un certo punto, mi comprò – firmando delle cambiali – il primo amplificatore per la chitarra! Tutto senza dire niente al papà.
Come definisci attualmente il tuo percorso musicale attuale?
Musicalmente credo di avere ancora parecchie cose da dire. Il mio principale sforzo è quello di voler comunicare a tutti che dentro di me c’è ancora tanta bella musica. E che, in generale, la creatività non risente dei limiti imposti dall’età. Io mi sento ancora in crescita.
Rimanere professionalmente immobili quando non si hanno più vent’anni può essere un po’ come morire, non respirare. Ancora oggi io non vedo l’ora di salire sul palco, di provare cose nuove con il gruppo. La musica rimane ancora una parte fondamentale ed integrante della mia vita, nonostante tutto.
Anche alla luce dell’attuale situazione pandemica?
Certamente, non potrebbe essere diversamente. E’ innegabile che il Covid ci sta cambiando… o forse stiamo cambiando noi, per adattarci a questo nuovo scenario vitale.
Un processo natuale, l’alternativa sarebbe solamente l’autodistruzione. Non nego che, comunque, rimango molto preoccupato per la stupidità di alcuni individui che continuano a pensare che questa cosa sia una passeggiata.
E della musica che – come direbbe Ivano Fossati – “gira intorno”… che ne pensi? C’è qualcosa che attualmente ti entusiasma in particolare?
C’è di tutto, alcune cose le trovo di valore, altre suonano meno  attraenti… ma forse è una questione di età. Qualcosa di rap e trap è interessante. Ci sono gruppi come i Måneskin in cui intravedo il desiderio di essere, di non giocarsela troppo facilmente con la musica. Apprezzo molto Ghali, Elodie e Mahmood… artisti che lavorano attorno a Dardust, che trovo bravissimo nel suo ruolo: una modalità di lavoro che dimostra segnali di grande qualità e creatività, sotto vari punti di vista.
Shel e Maurizio Vandelli: “rivali” nelle rispettive band (Roker e Equipe 84), grandi amici nella vita
Cosa rimane della tua fortunata collaborazione con l’amico e collega di sempre Maurizio Vandelli?
Con Maurizio ci siamo realmente molto divertiti, è stato anche in questo caso il Covid a decidere la durata del nostro sodalizio. Io continuo a  pensare sempre al domani, convinto che la mia vita sia ancora tutta da vivere, orgogliosamente ottimista, fiero del mio costante impegno a non omologarmi con la massa. Spero di poter presto tornare a suonare dal vivo, per un musicista la dimensione del palco equivale alla maschera d’ossigeno per il malato di Covid. È assolutamente vitale.
Hai qualche novità su un altro grande tuo amore, la recitazione? C’è qualcosa che bolle in pentola?
Devo essere sincero, mi sono state offerte alcune cose che ho rifiutato perché le reputavo poco divertenti. Il problema è che a questa età i registi ti propongono quasi sempre ruoli da nonno…
Cosa ti piacerebbe fare invece?
Credo che potrei essere un ottimo… serial killer!
Ti ho fatto molte domande ma nulla sulla tua nuova canzone… prima di salutarci ci dici qualcosa per inquadrarla?
Si tratta di una ballad che unisce la razionalità di un uomo adulto e lo sguardo eternamente sognante di un bimbo, per raccontare in ogni sua sfaccettatura il complesso sentimento dell’amore, quello vero, profondo, in grado di superare tutto e di durare in eterno. Personalmente ho sempre pensato con diffidenza al concetto di amore eterno e ogni volta che ho provato a crederci creduto, purtroppo la favola non si è avverata. Ma eccomi sempre pronto a crederci di nuovo.
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